Eylül 4, 2021

Un cattivo compleanno (Completa)

ile admin

Blonde

Un cattivo compleanno (Completa)
“Se non verrai alla mia festa, ti giuro mi offendo!”.

Marco era un mio compagno di scuola. Stavamo in classi diverse e devo dire che lui era proprio un secchione. Non aveva problemi con alcuna materia; personalmente era anche simpatico: gli piaceva la musica rock, lo sport e anche il porno aveva un posto di rilevanza nei nascondigli di camera sua. Ma non andavo sempre d’accordo con Marco; ci piacevano i videogiochi e condividevamo la passione per la pornografia, ma non ci eravamo mai messi insieme a masturbarci o fare cose così. In fondo eravamo anche innamorati di alcune tipe della nostra scuola per le quali avevamo davvero una scuffia assurda.

Lui in particolare era pazzo per una certa Anna M. che a me sinceramente pareva una triglia guasta, ma per lui rappresentava la Beatrice di Dante. Anche io ero innamorato; ma si sa, a scuola le ragazze guardano i più grandi e non si filano i coetanei che appaiono sempre sfigati e “piccoli”, ai loro occhi. Cercano cazzi più maturi ed è giusto che sia così. Ma a parte questo, Marco era il mio migliore amico, se così vogliamo chiamarlo. Uscivamo sempre insieme, andavamo al mare, ci telefonavamo e anche la mattina, si andava a scuola in coppia per fare tappa al bar e prendere un cappuccio. Lui era un tipo che sapeva fare il buono e cattivo tempo; quando gli giravano, le nostre uscite erano mute; quando era allegro, allora si parlava felici e magari ci si sbronzava di birra. In caso di serata negativa, si stava zitti, in attesa che uno di noi due rompesse il ghiaccio, ma poi nessuno lo faceva e a fine serata si accampava la solita scusa: “Pensavo che fossi arrabbiato”. Davvero patetici.

La birra era proprio una delle nostre passioni, ogni tanto. Ci infilavamo in una bettola dove il titolare compiacente, un vecchio simile a Benny Hill, ci serviva birre alla spina in abbondanza, fino a quando, per la staffa, ci regalava le poche paste rimaste dal mattino – “per assorbire”, diceva lui – e ci faceva uscire, barcollanti ed euforici. Quelle erano serate divertenti, perché poi andavamo al parco a svaporare i fumi dell’alcol ridendo, cantando e parlando di fesserie.

Io però Marco lo subivo. Stavo sempre alle sue lune, alle sue idee, alle sue voglie di fare qualcosa; raramente decidevamo insieme come divertirci. E questo mi irritava; certe volte lo odiavo e il solo vederlo muoversi, fare quella faccia da ipocrita, mi mandava in bestia. Mi ripromettevo di scaricarlo, ma poi la “luna buona” riportava l’amicizia in carreggiata e si ricominciava da capo. Insieme fumavamo anche e proprio quando decisi di smettere di fumare che capii che non era un amico vero; infatti, insistendo per offrirmi una sigaretta, al mio netto rifiuto rispose in modo iracondo: “E va bene, cazzo! Vaffanculo.”. Tipico di chi vuole sprofondare nel vizio insieme a un altro per non sentirsi idiota da solo. Ma io ci passavo su e continuavo a frequentare questo pseudo amico col quale però qualche volta mi trovavo bene.

Riguardo la pornografia, ci scambiavamo le riviste che lui spesso comprava, con faccia di bronzo incredibile, in edicola. Non faceva una piega: andava nel chiosco, prendeva la rivista e pagava. Poi ci passavamo il bottino su cui a turno ci masturbavamo a sangue. Diverso era per i film. Non essendo abbastanza coraggiosi da sfoderare i cazzi tra di noi, guardavamo il film senza masturbarci, anche se ogni tanto la mano andava a carezzare l’uccello letteralmente prigioniero e soffocato dai pantaloni. Eppure un paio di volte mi aveva gettato l’esca o almeno così mi pareva: “Sai, da ragazzini con gli amichetti ci facevamo le seghe insieme…”. Ma io, più per imbarazzo che per altro, lasciavo cadere la sua frase nel vuoto e non se ne parlava più. Un’altra volta, eravamo ospiti da una mia nonna e dormivamo nello stesso lettone. Ovviamente ci eravamo portati i quaderni per i compiti di scuola e l’immancabile rivista super porno. Lui per ridere si era messo a leggere le storielle piccanti e intanto ci eccitavamo in modo furibondo. Spenta la luce, non resistendo più, ci facemmo una sega (ognuno il suo) fino a godere. Non so perché, ma essendo venuto sulla pancia, passai la mano sul mio sperma e facendo un verso tipo di ribrezzo, passai la mano sui suoi addominali; la stessa cosa fece lui con la sua mano sula mia pancia e tutto si concluse con una risatina. D’estate, tornando dal mare e non trovando nessuno a casa, un paio di volte decidemmo di riempire la vasca e farci il bagno, con i boxer addosso. Le nostre gambe si incrociava sotto l’acqua schiumosa, ma nulla più; siccome in quelle circostanze eravamo goliardici, una volta gli dissi: “Proviamo a pisciarci in testa, ahah!” e lui fu d’accordissimo. Così lui si mise dietro di me e cominciò a urinarmi tra i capelli facendo scorrere il liquido ben bene lungo la faccia. Poi, svuotatosi, toccò a me e feci la stessa cosa, pisciandogli tra i capelli biondicci. Io non mi eccitai e nemmeno lui; non la prendemmo come una cosa erotica ma come un esperimento. Era una cosa per ridere, come si fa quando si è ancora un po’ infantili e coglioni. Sempre in vena di provare cose strane, provammo a succhiarci i capezzoli, ma la cosa, oltre a farci morire di solletico, non ci diede alcun piacere.

Quando gli toccò di fare la visita per la leva militare, di ritorno mi fece vedere il suo bottino: una rivista porno tripla che ci avrebbe assicurato ore di seghe senza pietà. Poi mi raccontò di come era andata e catturò la mia attenzione su un dettaglio: “Una volta facevamo la doccia, dopo la prima giornata di visite e test. C’era un altro vicino a me e…”, fece il gesto della mano a paletta che misura l’avambraccio, modo delicato per dire che il suo compagno di doccia aveva un cazzo incredibile. Sembrava quasi non capacitarsi, come se non credesse che esistessero cazzi grandi al di fuori del porno. Probabilmente era capitato vicino a un superdotato, però mi incuriosì davvero il modo in cui il fatto lo sconvolgesse. Avendo anche io fatto un sacco di seghe con amichetti, ricordavo che i più grandi avevano dei piselloni enormi.

Altre volte, da veri pornomani, descrivevamo le nostre sborrate. Lui spesso diceva con aria soddisfatta: “Ho fatto una sborrata densa e bianchissima, ahah!”, mentre io gli descrivevo la mia: “Ho schizzato sul bordo vasca, ma il colore dello sborro tendeva all’avorio. Comunque molto denso, eheh.”. Oppure mi descriveva il suo cazzo, informandomi che aveva una venuzza che, in erezione, andava a zig-zag verso il prepuzio. Insomma, nulla di che; discorsi tra ragazzi comunque infoiati e sempre a cazzo duro e con la gnocca stampata in fronte.

Marco e io eravamo così, dunque. Solo verso la fine del liceo uscivamo meno assiduamente. Finalmente, lui aveva socializzato meglio coi compagni di classe e mi parlava con entusiasmo di questo fatto; io invece preferivo la solitudine e declinavo sempre i suoi inviti ad unirmi al suo “entourage” che nel mio intimo consideravo un gruppo di coglioni in stile “Beverly Hills 90210”, completamente strafatti di moda e di vuoto interiore. Qualche volta glielo avevo anche detto, che i suoi “amici” mi stavano sul cazzo e in particolare le ragazze: tutte viscide e pronte a sparlare alle spalle, oltre che cozze. Ma lui diceva che no, mi sbagliavo, erano simpaticissimi. E così via di menata in menata, esaltato come se stesse parlando di un Profeta. Effettivamente Marco si faceva un po’ condizionare dall’ambiente che frequentava. Fin quando stava con me, facevamo i solitari depressi; adesso che aveva scoperto lo “Shangri-La” della greffa, pareva che il mondo dovesse andare verso le serate cocktails e le estenuanti sessioni di chiacchiere inutili fatte in centro città. Patetico idiota.

Cominciai a odiarlo ancora più di prima e a considerarlo un vero e proprio fuscello in balia del vento dell’ipocrisia. Sì, “ipocrita” era la parola, l’aggettivo che meglio lo classificava nella zoologia sociale. Per esempio, una volta fece conoscenza con una coppia sposata di napoletani, amici del padre. Ebbene, mi assillò per una settimana dicendo che erano simpatici, gentilissimi, in una parola, i migliori amici che si potesse avere. Io sapevo già che era una delle sue cantonate e ne ebbi conferma quando, riuscendo a convincermi a uscire a quattro con quei due fenomeni, nel momento di contattarli al telefono per organizzare l’incontro, loro semplicemente staccarono il cellulare, lasciandolo come una pera cotta tra le eco, ormai lontane, delle sue altisonanti lodi. Figuriamoci i napoletani, adulti, se volevano passare la serata con due burbette idiote come noi. Io lo sapevo e vidi la delusione nei suoi occhi; ne provai quasi pena, forse per la prima volta nella mia vita. Decisi quindi di non infierire e dissi che sarebbe stata per un’altra volta, che tutto sommato non avevo voglia di uscire, eccetera.

Marco non era propriamente un “Adone”. I suo pregi fisici stavano nei capelli, di un bel biondo scuro e ondulati. Un bel petto robusto e delle belle braccia, molto muscolose e reattive; il volto ricordava in modo straordinario il San Giovanni di Leonardo Da Vinci; una volta, fresco di una lezione di Storia dell’Arte, glielo feci notare; e lui rimase davvero rallegrato da quell’accostamento, tanto più che portava i capelli un po’ lunghi e boccolosi come nel quadro di Leonardo. Più che i capelli, era proprio il suo sorriso e l’ovale del volto a rassomigliare così; direi che il suo volto era molto femminile; un’altra volta che facevamo i cretini, lui si era raccolto i capelli sulla nuca, come fanno le donne dopo il bagno e si era attorcigliato un asciugamano lungo il corpo; ebbene, accidenti, sembrava una ragazza! Tanto più che era riuscito a sfoggiare, grazie agli occhi dolci che aveva, un sorriso straordinario e accattivante. Sexy.

Di bruttino invece aveva la statura, più bassa della media e le mani, un po’ tozze con le dita troppo corte per i miei gusti e per i gusti di altri che, in alcune circostanze, gli avevano detto che aveva le mani “da nano”. Forse una cattiveria, ma effettivamente non aveva delle mani eleganti. Infine aveva delle gambette non all’altezza del suo busto; erano smilze e anche se cercava di rinforzarle disperatamente in palestra, complici un paio di ridicole scarpette “all star” da finocchio, erano davvero delle gambettine quasi storte e magre che lo facevano saltellare nelle discese ripide. Forse qualche grecista potrebbe ricordarsi di Efesto, dio possente nel torso ma malfermo nelle gambe mezzo rotte.

Povero Marco. Scriveva anche poesie molto struggenti. Una volta quasi mi fece piangere con una poesiola tristissima dedicata alla vita; pure lui pareva sconvolto, dopo avermela recitata, da quei versi in prosa così intensi; ero rimasto così scosso che dovetti cambiare stanza per riprendermi facendo dei respiri profondi; poi gli dissi che scriveva bene, ma che avrebbe fatto meglio ad essere più positivo, perché mi aveva lacerato i fili del cuore. E in quella circostanza lo avrei voluto abbracciare per confortarlo, vedendolo così disperato, con gli occhi grandi grandi e persi nel vuoto davanti al foglietto appoggiato sul tavolo; ma poi chi avrebbe confortato me più scosso di lui e pronto a sciogliermi in lacrime? Fu una serata da tramonto dell’anima.

“Se non verrai alla mia festa, ti giuro mi offendo!”.

Era estate. Mi disse questa frase in pieno delirio da “Beverly Hills 90210”, quello che lo pervadeva quando frequentava la combriccola di falsi e bastardi suoi compagni di classe. Ero già riuscito a sganciarmi da quella che in gergo veniva chiamata “indianata” cioè un falò acceso in spiaggia con tutti i deficienti intorno a chiacchierare, bere e “divertirsi”. Ero riuscito a scamparmela perché all’ultimo momento avevo avuto un impegno che in circostanze normali avrei mandato affanculo, ma in quella occasione rappresentò una ancora di salvezza incredibile: andare da mia nonna a recuperare frutti di stagione raccolti da mio zio. Lui non insistette, ma ne fu rammaricato, dicendomi: “Ma alla prossima festa vieni, eh? Ti divertirai!”. Io nel mio intimo lo mandavo al diavolo assieme ai balordi della sua classe e a quelle troie che ne facevano parte, tutta una manica di schifosi. Ma la mia fortuna volgeva al termine e per il compleanno non avrei avuto scusanti: sarei dovuto andare a una festa organizzata in campagna e lì ci sarebbe stata tutta la banda lurida di classe sua. Al completo! Mi sarei sentito più tranquillo in una fossa di ghepardi affamati.

Apro una piccola parentesi per ricollegarmi all’episodio della visita di leva. Mi raccontò infatti che in una delle giornate al mare con i suoi amici di classe, capitò che delle ragazze si fossero messe a fare le sceme con un loro compagno, uno dei più prestanti e bellocci; niente di chissà che cosa, soltanto gli tiravano le braccia per cercare di farlo cadere. Il tipo in questione, siccome erano tutti in costume da bagno, ebbe un’erezione di lusso e Marco mi fece intendere il fatto ripetendo lo stesso identico gesto che aveva fatto per la visita di leva: mano a paletta su mezzo avanbraccio, guardandomi con la faccia incredula. E’ chiaro che provava sgomento per i cazzi grossi.

Per il suo compleanno gli regalai, prima di recarci alla festa, una cintura per la sua chitarra elettrica. Un regalino da niente che però lui fece finta, credo, di apprezzare più del dovuto. La festa sarebbe poi iniziata verso le 20.30 e per andare mi avrebbe dato un passaggio lui stesso grazie al papà. Per il ritorno ci avrebbe riaccompagnati un amico, data l’ora tarda. Arrivati in campagna riconobbi già da lontano alcuni musi della sua sezione, quelli che detestavo di più. Il “bello” è che mi toccò pure di partecipare a una partitina di calcio improvvisata; io che odio il calcio più di qualsiasi altra cosa! Quella tortura durò per una buona mezz’ora, quando finalmente il padrone di casa che aveva messo a disposizione la villetta ci disse che potevamo accomodarci per iniziare la festa.

Marco era il re della situazione. Sprizzava ipocrisia da tutti i pori, come se fino all’anno prima non fosse stato uno sprezzante critico del genere umano e di quel tipo di occasioni festaiole. Adesso era lì che interloquiva con tutti, fissandoli negli occhi, quasi come se capisse le anime del mondo. Io stavo in tavolata a spiluccare una pessima pizza e a bere quanta più birra potevo: unico rimedio per soffocare la mia timidezza. Per questo motivo il tempo cominciò a scorrere più veloce e decisi di mettermi in un divanetto quando tutti stavano a ballare o a discutere. Per estranearmi ancora di più, afferrai una chitarretta e, completamente fatto di alcol, cercavo di strimpellare qualche accordo che però le mani intorpidite e semi paralizzate si rifiutavano di eseguire. Lo stato di ebbrezza però non mi impediva di notare gli sguardi di disprezzo che mi lanciavano quelli di “Beverly Hills 90210”. Quelle facce di merda era come se dicessero: “Guarda che ubriacone, se ne sta da solo a fare il fenomeno con la chitarra! Ma perché Marco lo ha portato?”. Eppure non davo fastidio a nessuno; mi ero messo anche gli occhiali da sole per non soffrire delle luci troppo forti. Che cazzo volevano da me?

Passò poi Marco. Finalmente si era degnato di parlarmi. Era completamente esaltato e un po’ bevuto; mi scuoteva affettuosamente la spalla domandandomi se mi stessi divertendo e altre idiozie del genere; io, per non preoccuparlo, gli dissi che avevo tracannato troppo e che stavo bene così. Effettivamente ero perso e non vedevo l’ora di andarmene da quella campagna maledetta. Quando finalmente tutti decisero che era finita, si erano fatte ormai le due di mattina e io non avevo parlato con nessuno.

Da questo momento, iniziò la parte strana della serata. Il signore che ci riaccompagnò a casa, ci lasciò presso la casa del mio amico. Abitando vicino, avrei dovuto fare poche centinaio di metri per tornare al mio letto. Comunque ci mettemmo a chiacchierare, ma dopo poco mi disse: “Dài, vieni a dormire da me, ti ospito io, è così tardi!”. La sua voce aveva il tono della esaltazione isterica; gli occhi spiritati. Io gli rispondevo che no, volevo tornare a casa mia per dormire in santa pace. Ma lui insisteva, tantissimo, che dovevo dormire da lui. Forse la birra gli aveva fatto l’effetto del caffè, come a volte succede. E tanto disse, tanto fece che, per rispetto al suo compleanno, acconsentii.

A casa sua dormivano tutti. Al buio, seguendolo, arrivammo alla sua cameretta. Chiusa poi la porta alle nostre spalle, accese l’abat-jour. “Puoi dormire qui.”, disse, tirando fuori un materasso da sotto il suo letto che era concepito per nascondere un secondo posto grazie a un meccanismo. Poi disse: “Io vado a lavarmi perché puzzo di tutto, ahah!” e infatti eravamo puzzolenti di fumo, spumante, legno bruciato e tutto quello che riserva una festa in campagna. Intanto mi ardeva la gola e gli chiesi di poter fare anche io una doccia per riprendermi. Lui ovviamente disse sì. Così, a turno, facemmo la doccia e io in particolare bevvi molta acqua, perché ero disidratato.

Tutte queste pratiche ci portarono via una mezz’oretta e avevamo davvero voglia di andare a dormire. Dopo la doccia io rimasi con le mutande e lui si mise un pigiama estivo a maniche corte e pantaloncini, un po’ buffo, che giudicai non adatto alla sua età. Sul tavolino della scrivania aveva una consolle e gli chiesi se potevo fare una partita ad un gioco che mi piaceva tanto. Lui, ridendosela, disse: “Fai pure, intanto io mi stendo!”. In realtà feci solo una partititna, inframmezzata da domande su come fosse andata la festa. Lui rispondeva a monosillabi, quasi sfatto dal sonno. Vedendolo in quelle condizioni decisi di chiudere la consolle e di stendermi anche io sul mio cantuccio a destra di Marco ma non prima di aver spento la luce della abat-jour.

La notte pareva paralizzata. Da fuori, attraverso la tapparella abbassata, filtrava la luce lunare che rischiarava il cielo. Un cielo da lupi mannari con nuvole nere rade. “Marco ma ti sei divertito?”, gli chiesi. Lui stava a pancia su, con le mani dietro la nuca e un lenzuolino che gli copriva metà corpo; infine rispose: “Sì, abbastanza”. Poi aggiunse: “Sai, Anna M. era alla festa; per farla partecipare ho dovuto invitare anche il suo fidanzato.”. Effettivamente c’era anche un tipo grandetto, alla “partita di calcio” che era stata improvvisata prima della cena. Questi aveva un vestitino da damerino, cravatta e scarpine con fibbia; insomma, un perfetto ometto fidanzato con l’amore impossibile di Marco. Io di rimando mentii: “Sì, l’ho visto, ma non credevo fosse il fidanzato…”. Dalla mia sinistra arrivò un “Ehhh…”, così sconfortato che mi turbai. Prontamente replicai in modo scherzoso: “Dì, ma non sarai mica triste, eh?”. Ma da Marco, nessuna risposta. Allora rincarai: “Ma quello è un coglione, lo vedevi con i vestitini da cascamorto idiota…, cazzo, lascialo perdere, Anna M. ne avrà ancora tanti, di fidanzati, in futuro, eheh.”. Ma da Marco giunse un nuovo “Ehhh, sì.”. Mi voltai verso di lui e vidi che adesso teneva il braccio sinistro sugli occhi, come per ripararsi dalla luce della luna che lo punteggiava di tante perle. Poi vidi delle stille scivolare dal braccio: prima una, poi due e una terza che si fermò a metà sulla guancia, vicino all’orecchio. Piangeva la sua disperazione. E dopo quelle tre lacrime cominciò a respirare con più affanno, preda della commozione e della desolazione che provava autocommiserandosi. Ormai le lacrime non le contavo più. Aveva gettato la maschera “social” e beveva il calice amaro di una serata di finzioni. Aveva versato tutta la sua dignità in una festa che non sentiva, o meglio, che percepiva come me in modo inutile e stancante con in più la cocente delusione di vedere la ragazza da lui adorata tra le braccia di un idiota totale a cui sarebbe stato bello spaccare il muso a calci.

Parlò ancora: “Si sono baciati… Li ho visti fuori dalla villetta, dietro… Cazzo, ma perché l’ho invitata? Eppure lo sapevo che finiva così…”. Ora si affannava, respirava sconnesso, scosso dai singhiozzi. Non si copriva più gli occhi ma li teneva chiusi e piangeva senza ritegno. Il cuscino intorno alla sua testa, immaginavo, era già umido di lacrime.

FINE PRIMA PARTE
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Dunque Marco piangeva. A dirotto quasi.

Solo un’altra volta avevo visto il mio amico così disperato; era stato quando in piscina, a casa di un conoscente
comune, si era ferito alla spalla con il retino che si usa per pulire l’acqua dalle foglie e dagli insetti che galleggiano. Facendo scivolare il manico della rete, una piccola vite di fissaggio gli graffiò un neo che appunto aveva sopra la
clavicola. A quel tempo era convinto che una qualsiasi ferita a un neo comportasse cancro sicuro. Mentre la madre
del nostro amico lo medicava, scoppiò a piangere, sconfortatissimo, domandando se sarebbe morto di cancro…
La signora, allibita, gli domandò chi gli avesse messo in testa certe idee e che a lei capitava spesso di ferirsi anche sui nei e di non aver mai avuto conseguenze. Fatto sta che se l’era praticamente fatta sotto. Per un po’ di tempo stette con un ridicolo cerotto sopra alla ferita.

Ed eccolo di nuovo in lacrime vicino a me, in quella notte così blu scuro. Nella sua stanza le uniche fonti di
illuminazione erano i led del videoregistratore e dello stereo che debolmente mandavano i bagliori azzurrognoli
dello stand-by. Io non sapevo che fare. Mi ero messo di fianco, con una mano a sorregermi la testa e l’altra sulla
pancia, guardando Marco che si disperava per la sua ridicola tragedia. A un tratto pensai di confortarlo e gli
carezzai la guancia. Non gli avevo mai toccato la guancia: era morbida, ma si sentiva la punta della barba che già
ricresceva. Col pollice accennai una carezza, ma tenni la mano ferma, in quel contatto, pensavo, per trasmettere
serenità o, che ne so, pace. Ero un guru? No. Lui non reagì, comunque a quel tocco. Ebbi paura di passare per uno
che compatisce, una di quelle persone che dicono “poverino, forza, non è successo nulla”, ma poi non gliene frega
nulla, se uno sta crepando sul serio. Così ritrassi la mano e lo fissai. Ma a me ne fregava qualcosa? Devo dire di sì,
perché lui era realmente disperato e mi sentivo partecipe del suo smarrimento così intenso. Anche se intanto
aveva smesso di piangere visibilmente, il suo respiro rimaneva agitato e aveva riportato l’avanbraccio sugli occhi,
forse per vergogna di essersi lasciato andare così. No sapendo come comportarmi, gli dissi una cosa sincera:
“Non vergognarti Marco… Capita, di essere affranti, no? Siamo amici, anche se non ci siamo mai lasciati andare a
esternazioni così…”. Non disse nulla. Solo un “mmmh…” di assenso, per farmi capire che era d’accordo. Io
continuavo a fissarlo e pensavo a quanto fosse carino il suo volto, dai tratti così femminei. Pensai che era una notte
così assurda; pensai a lui che con fare da spiritato mi chiedeva di rimanere per la notte. Chinai la testa e appoggiai le labbra sulle sue, un po’ di traverso.

Era il mio vero secondo bacio. La prima volta avevo baciato una inglese bellissima, bionda con occhi azzurri.
Adesso baciavo un biondino con occhi castani. Tenni le labbra sulle sue, senza muovermi; solo i nostri nasi
respiravano in modo un po’ fremente: l’aria veniva aspirata ed espirata con un soffio che sapeva di grecia antica.
Con un piccolo movimento incavai il mio labbro inferiore sotto il suo superiore e schioccai il bacio col classico
suono languido. Poi ripetei l’operazione altre volte, sempre delicatamente, come se stessi baciando una farfalla.
Sentivo il cuore che andava velocissimo, ma non tanto per l’emozione, quanto per la fatica di respirare, tenermi in
equilibrio di traverso sopra i lui e non romprere quel momento così particolare. Pensavo anche che da un momento
all’altro mi avrebbe potuto aggredire e picchiarmi, ma sembrava paralizzato. Solo il braccio, era scivolato dietro la
sua testa e mi fissava con occhi socchiusi, persi nel vuoto. La sua espressione era neutra. Teneva la bocca
leggermente aperta, ma mi fissava, anche se pareva guardare oltre me. A un certo punto, con il dorso della mano
sinistra, mi diede una carezza sulla guancia, lentamente. Quella mano così poco femminile, aveva avuto un gesto
gentile verso di me. Allora gli presi le dita e gli diedi un bacio a mo’ di baciamano. Mi sentivo un po’ imbarazzato:
facevamo l’amore cortese? Tirandolo per la mano, lo invitai a mettersi seduto, perché io non ce la facevo più a
stare piegato. Così mi spostai sul suo letto e mi misi in ginocchio davanti a lui che invece stava seduto a gambe
incrociate. Visto che non mi aveva picchiato, gli presi il volto tra le mani e gli diedi un altro bacio sulla bocca,
carezzandogli le guance coi pollici. Lui appoggiò le mani sulle mie cosce, senza muoverle. Stando un po’ più in alto
di lui, teneva la testa un po’ reclinata per permettermi di baciare meglio; adesso aprivamo anche un po’ la bocca, e
io potevo sentire il sapore della sua saliva, dove le labbra i fanno umide. Non gli carezzavo solo le guance: feci
scorrere le mani anche sul collo, per carezzarlo di più. Nei miei gesti mettevo affetto che credo fosse sincero. Ma in
realtà, a parte l’empatia sul suo stato d’animo, mi sorpresi a scoprire che non provavo nulla. Zero. Nessuna
emozione. Quando baciai l’inglesina, ricordo che il cuore era andato fuori controllo e il cazzo mi era venuto duro
come l’acciaio; un’erezione che durò tutta la notte, ore e ore dopo aver salutato la mia bella biondina. Con Marco,
seppur la scena avesse un non so che di estatico, non riuscivo a provare eccitazione; solo un vago senso di
trasgressione. Pensai che proprio nell’altra stanza c’era il fratello che dormiva e un po’ più in là i genitori. Pensai:
Chissà che facce se ci avessero sorpresi così?
Marco interruppe i miei pensieri dicendo: “Sto scomodo…”; allora feci per mettermi di nuovo di fianco, ma lui
decise di cambiare proprio posizione e facendomi mettere di schiena, mi si adagiò sopra e questa volta fu lui a
baciarmi, devo dire, con passione e tantissimo affetto. Nel suo bacio sentivo la stessa disperazione di quella
poesia struggente di cui ho già accennato. Avendogli cinto le braccia sui fianchi, lui questa volta mi baciava
carezzandomi la guancia con la mano sinistra. I suoi baci erano continui: si concentrava su entrambe le labbra e
poi mi baciò gli occhi, la fronte e ogni tanto mi guardava nella penombra, anche se io scorgevo solo lo scuro degli
occhi. I suoi capelli mi ricadevano un po’ sul collo e questo mi piacque molto, dandomi l’impressione di avere sopra
una donna. Con un po’ di immaginazione, pensai di avere sopra una mia compagna di classe che desideravo
ardentemente e cominciai a muovere istintivamente il bacino, facendo strusciare il pene su di lui. Anche lui prese a
fare la stessa cosa e presto eravamo entrambi, lui nel suo ridicolo pigiamino, io nelle mie mutande, col cazzo
davvero in tiro. Cercavo di indovinare come fosse il suo pene. Non avendolo mai visto, dalla senzazione che
riportavo dalle parti basse, mi pareva normale, ma non potevo davvero fare una stima. Di sicuro lui era
completamente infoiato; sembrava desiderare di fondere il suo respiro col mio, continuando a baciarmi
disperatamente. Dal canto mio, gli carezzavo la schiena bella che aveva, portando le mani sino alle scapole e poi
di nuovo giù, alle reni. Quando abbassavo le mani, pian piano mi avvicinavo al culetto che, sapevo, aveva bello e
dopo una infinita serie di carezze, alla fine insinuai le mani sotto l’elastico del pigiama e gli carezzai i glutei. Fu
come mostrare il frustino al cavallo: si avvinghiò al mio collo e cominciò a baciarmi con ardore, tirandomi i lobi
delle orecchie coi denti. Non stava forse esagerando? Cominciai a sentirmi stanco da morire: l’alcol, il sonno,
l’eccitazione… Tutto mi stava davvero facendo sprofondare in una stanchezza mortale; avrei voluto dormire. Eppure
volevo giocare ancora un po’. Sentire il sedere di Marco sulle mani mi insegnava le delizie che avrei assaggiato
quando avrei fatto l’amore la prima volta con una donna. Il culetto di Marco era bello sodo, morbido ed elastico. Un
sogno davvero. Ogni tanto facevo scorrere un dito nentro al solco dei glutei, indagando sul buchetto e lì dove più
avanti si trovano i testicoli. Un paio di volte sentii le contrazioni anali sul mio dito, segno che strusciandosi su di me,
Marco stava provando molti impulsi orgasmici. Eppure qualche sospiro profondo sfuggiva anche a me; quando mi
chiudeva la bocca con la sua, dopo quel contatto di labbra così intenso sentivo il pene inturgidirsi ancora di più e il
respiro farsi profondo. Doveva trattarsi di una sorta di reazione fisiologica, perché davvero non ero per nulla attratto
sentimentalmente da lui; mi sentivo in qualche modo freddo, distaccato, anzi; un distacco che prende quando un
momento non lo si vuole sentire mancando le chiavi di codifica.

Ecco, forse lo facevo per lui. Volevo donargli il mio affetto e, crudelmente, fargli fare un’esperienza di cui in futuro si
sarebbe pentito amaramente. Io sapevo già che non mi sarei pentito, perché recitavo, anzi, sperimentavo l’amore
tra maschio e maschio, dopo anni di sostanziale tensione sentimentale con Marco. Probabilmente lui mi
desiderava, ma non osava di fare il passo decisivo. Lo feci io, spudoratamente, trascinandolo in un gorgo di lame
piacevoli.

In realtà misi a fuoco questi pensieri l’indomani mattina, facendo colazione. In quei momenti ero guidato dalla
meccanica del gioco e mi ci abbandonavo. Decisi meccanicamente di baciargli il petto; lo feci discostare un poco
e presi a baciargli i capezzoli che aveva piccoli e ora turgidi per causa della mia lingua; la sua pelle era molto liscia
e i pettorali ben sviluppati che aveva mi davano l’impressione di un seno, anche se troppo duro. Baciandogli i
capezzoli lo guardavo negli occhi, anche se la penombra rendeva la cosa quasi inutile: erano quattro fosse nere
che si sfidavano nel vuoto.

A un certo punto gli dissi: “Marco, sono a pezzi… Vorrei dormire, sono davvero stanchino… Ti va?”. Lui mi rispose
con un bacio intensissimo e stringendomi poi la testa al petto. Poi disse: “Come faccio? Sono eccitatissimo… Non
so cosa mi prende, voglio stare con te così per tutta la notte…”. E io: “Marco, è tardissimo… Possiamo riprendere
un altro momento, penso che per oggi ne abbiamo avuto abbastanza, no? Domani saremo due zombie assurdi!”.
Allora si disciolse da me; accondiscese e si stese nel suo letto. Però mi tirò a sé, quasi con arroganza: l’arroganza
di chi ha trovato un tesoro e se lo vorrebbe tenere ben stretto. Io stetti al gioco e mi accoccolai al suo fianco,
abbracciandolo. Poi sprofondai in un sonno neutro, appena dopo di lui che aveva già iniziato a respirare con la
pesantezza dell’oblio. Mi toccai la punta del pene e notai, compiaciuto, che il prepuzio era completamente infiorato
di liquido prespermatico.

La mattina accadde quello che temevo: ero a pezzi, devastato. Bocca asciutta, senso di stordimento, dolore agli
occhi e per di più ci svegliammo alle dieci! Saltai come un lampo dal letto e corsi a telefonare ai miei per dirgli che
ero ancora vivo; per fortuna erano a lavoro e non badarono troppo alla mia marachella, sapendo comunque che ero
al compleanno di Marco. Poi, dopo quella breve telefonata, chiesi a Marco se aveva intenzione di fare colazione,
ma lui se ne stava a letto, più sfatto di me, apatico. Era tornato a essere il solito stronzo ipocrita ed egoista che
ben conoscevo. Vedendo che tirava tardi, mi sganciai, disgustato e salutandolo con un sorriso gli dissi: “Ci
vediamo!”.

Tornato a casa, mi detti una bella lavata e buttai dentro alla lavatrice i miei vestiti puzzolenti di fumo; poi mi misi a leggere e a cazzeggiare per assorbire quel senso di stanchezza, prima del pranzo. Ogni tanto un pensiero mi
trafiggeva: “Che cosa ho fatto? Ho amoreggiato con un maschio!” e così via, accusandomi e assolvendomi dei fatti
notturni. In realtà non mi sentivo proprio in colpa, perché quello che era accaduto era una mia precisa scelta, quasi
un desiderio che volevo esaudire. Quello che temevo era Marco, in realtà, perché pensavo che si fosse
compromesso sentimentalmente, mentre per me poteva anche crepare: sarei rimasto indifferente, avendo più o
meno goduto delle sue grazie.

Frequentandoci spesso anche durante la ricreazione, a scuola, più o meno tutti sapevano che eravamo amici di
lunga data. Ma quello che accadde l’ultimo anno scolastico mi fece davvero incazzare e mi portò a prendere una
decisione drastica per rimettere a posto cielo e terra. Un giorno, al cambio dalla terza alla quarta ora di lezione,
profittando dei cinque minuti di pausa di rito, Marco arrivò nei pressi della mia classe, cercando di dissimulare una
certa agitazione. Mi disse: “Hai letto cosa c’era scritto in bagno?” e io “No, a parte le bestemmie e gli insulti ai
professori…”; lui, tagliando corto disse: “C’era scritto che io do il culo a te!”. Mi sentii agghiacciare, pur mantenendo tutta la freddezza che mi è solita e e replicai: “Ovvio, siamo sempre a fumare e andare a spasso insieme, qualcuno avrà voluto fare una battuta cattiva. Proprio un coglione tipico di questa cittadina di merda!”. Lui replicò: “Ho cancellato subito, comunque…”. Bene”,dissi, “Se mi garantisci che la scritta non ha connessione con quello che sai, allora è solo una cattiveria gratuita di qualche idiota e senza scandali.”. La mia spiegazione era la più logica e probable. Era impossibile che Marco avesse raccontato la nostra avventura galante a qualcuno e io pure, ero una tomba, a proposito.

Nonostante tutto, quell’episodio mi fece soffrire. Probabilmente anche io, se avessi visto due sempre insieme,
avrei pensato, dopo un po’, che ci fosse altro, oltre l’amicizia. La stessa cosa, si badi bene, non accade tra le
donne, che seppur fanno culo e camicia a scuola, raramente vengono accusate di essere lesbiche. Per i maschi
c’è una soglia di tolleranza più ristretta e probabilmente Marco e io la avevamo superata.

Decisi di agire.
Per prima cosa feci il bilancio della mia amicizia. Il nostro rapporto non era di parità, ma veramente sbilanciato. La
maggior parte delle volte ero io a sacrificare le mie scelte per accontentare le decisioni di Marco. Per di più lui era
un egoista che faceva il bello e cattivo tempo e questo comportamento trovava im me un quieto amico che non
cercava litigi. Infine, la scuola superiore stava per terminare e non volevo inquinare l’università continuando a
frequentarlo con quel ritmo assurdo.

Il mio primo giro di vite fu a scuola. Non scesi più per la ricreazione e se lo facevo, andavo in compagnia di altre
persone, come dentro a una scorta. All’uscita da scuola me la svignavo a razzo, essendo al piano terra, evitando
così di aspettarlo. Poi ridussi le telefonate di rito che ci facevamo alle 15.00 per organizzare la passeggiata serale.
Se telefonava lui o se passava a casa per cercarmi, avevo dato ai miei genitori istruzioni di dire che ero fuori per
una ricerca con altri compagni di classe. Anche la mattina, uscivo presto di casa per andare al bar a fare colazione
in santa pace, leggere il giornale e poi recarmi a scuola cinque minuti prima della campanella. Adoravo quella
risposta così netta alla sua possessività. Immaginavo, gongolante, quanto si potesse sentire solo senza il gonzo da
portare a spasso col gunizaglio.

Un pomeriggio, che realmente stavo tornando dal fare una ricerca, lo vidi in lontananza: rotta verso casa mia. Lo pedinai a distanza e per anticiparlo al mio portone, corsi per una scorciatoia tra cortili e muretti di palazzi, riuscendo a nascondermi con un buon anticipo dietro il muro che costeggia il mio portone. Come avevo previsto, Marco arrivò e suonò il campanello. Rispose mia madre, riferendogli che ero fuori per una ricerca, che sarei tornato di lì a poco e bla, bla, bla. Lui girò sui tacchi e si incamminò verso casa sua. Avevo corso un bel rischio a stare nascosto nei paraggi, ma la cosa mi mise davvero di buon umore!

Ben presto Marco non telefonò più, ma un giorno riuscì a beccarmi e, come ai vecchi tempi, decidemmo di andare a bere una birra, senza ubriacarci, ai giardinetti. Parlavamo del più e del meno, fino a quando lui mi domandò: “Ho
fatto qualcosa che ti ha fatto arrabbiare? Mi pare che tu mi eviti: non ti fai trovare, non scendi più alla ricreazione.
Ho dovuto fare i salti mortali per bere questa birra qui…”. Io, falsamente, gli assicurai che non c’erano problemi, che
per me era tutto a posto e che comunque ero molto impegnato. Possibile che non capisse che ormai si diventava
grandi e che non c’era più spazio per quella sorta di vita in simbiosi? Avrebbe voluto continuare così sino all’università? Ma non voleva avere una vita più aperta? Forse gli amici in stile “Beverly Hills 90210” non lo
aggradavano come credeva? E poi, cosa voleva da me? Voleva un amante? Un innamorato? Non si è ragazzini
per sempre. Forse avremmo dovuto “scoprirci” prima, ai tempi delle scuole medie e dare sfogo ai nostri istinti
sensuali. Ma per pudore consumammo solo una struggente notte di passione, unica e irripetibile.

Lì ai giardinetti si consumava l’ultimo atto della nostra amicizia che durava da otto anni circa. Fu l’ultima birra, l’ultima conversazione, l’ultima vicinanza. Io continuai imperterrito a vivere libero la mia vita a scuola e non. Lo incontrai per caso due volte, incrociandolo per strada, solo. La prima volta lo salutai e lui, guardandomi male non rispose, con fare indignato. La seconda volta, riconoscendolo da lontano, cambiai io strada prima di intersecare la traiettoria.

Poi le scuole superiori finirono e di lui non seppi più nulla.